Vessazioni, angherie, continui cambi di sede, e poi atteggiamenti che hanno concorso a farla sentire fallita ed inadeguata. La vita sul posto di lavoro per Rosa Lo Nardo era diventata un inferno.
Per questo la donna, il 6 dicembre 2013, all’età di 45 anni, si tolse la vita lanciandosi dal balcone della sua abitazione.
Rosa, che era laureata in biologia, era un’informatrice medico-scientifica. Adesso la Procura si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per i dirigenti di una multinazionale del farmaco per cui lavorava, Fabio Scaccia, di 49 anni, e Rosario Emanuele Raiti, di 50, entrambi originari di Catania.
Per Sergio Monaco, legale dei due dirigenti, le accuse sono basate sul nulla e presto verrà fuori la verità.
L’avviso di conclusione delle indagini – preludio alla richiesta di processo – è dei pm Alessandro Clemente (oggi non più in Procura) e Siro De Flammineis. I familiari della Lo Nardo sono assistiti dagli avvocati Mauro Torti e Corrado Nicolaci.
Istigazione al suicidio l’ipotesi iniziale, poi trasformata in stalking sul lavoro. Il pm alla fine hanno deciso di andare avanti per violenza privata.
Sarebbero nove gli episodi ricostruiti che avrebbero fortemente gettato nello sconforto Rosa, costretta tra l’altro, per continuare a fare il suo lavoro, ad abbandonare gli anziani genitori nonostante avesse ottenuto il riconoscimento dei benefici previsti dalla legge 104.
I due manager sostengono che i provvedimenti adottati nei confronti di Rosa, sono tutti previsti dalla legge e che la stessa avrebbe potuto impugnarli tramite un legale, cosa che non ha fatto.
Come esempi di violenza privata i pm indicano il trasferimento dalla città di Catania a Trapani e provincia (ma la difesa sostiene che di quell’area Rosa si occupava già) poi alle zone di Teramo, L’Aquila, Chieti, Pescara e Campobasso.
Ma c’è di più. Ad un certo punto Rosa sarebbe stata ‘spedita’ in Abruzzo senza i campioni dei farmaci necessari per il suo lavoro, e spostata ancora una volta di sede dopo che aveva affittato una casa a Pescara, città che riteneva la sua sistemazione definitiva.
Alla donna, come riportano alcuni organi di stampa, sarebbe poi stato spiegato che tutto era finalizzato a farla dimettere, “in quanto soggetto non più gradito”. Dopo il trasferimento in Abruzzo ci sarebbero stati i pedinamenti e infine il licenziamento. Tutti atti legittimi, sottolinea l’avvocato dei due manager.